Il linguaggio macchina della postmodernità

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Da bambini, ad un certo punto, abbiamo incominciato ad acuire la nostra capacità d’ascolto, assorbendo come spugne il mondo intorno a noi: immersi nei discorsi di genitori e altri familiari, abbiamo appreso di calcio, di politica, di società; lo abbiamo fatto con la semplicità e l’innocenza che hanno i fanciulli, traducendo ogni questione in vero o falso, giusto o sbagliato, buono o cattivo, bene o male. Come elaboratori elettronici dividevamo il mondo in una sequenza di 1 o di 0 (on/off). Durante l’adolescenza poi, il desiderio di emanciparci dalla famiglia, sperimentare identità e ricercare indipendenza, ci ha portati a rifiutare pensieri e valori appartenenti al gruppo di origine.

Ma che cosa accade (o dovrebbe accadere) in età adulta?

Da un adulto ci aspetteremmo una visione del mondo e della vita più matura di quella di un bambino; la capacità di comprendere la complessità della realtà.

Ma allora, per quale motivo, trainati da una sorta d’istinto primordiale torniamo al linguaggio macchina, di quando eravamo piccini?

La nettezza dei giudizi a priori è tale da renderci incapaci di valutare obiettivamente i fatti ma, soprattutto, non ci consente di entrare in empatia con l’altro da noi: da chi la pensa diversamente e, di conseguenza diventa l’incapace, il cattivo, il nemico; insomma, qualcuno da escludere, da allontanare. Questa visione distruttiva dell’esistenza, devasta i rapporti interpersonali e pervade i vari ambiti della nostra vita.

Il clima d’incertezza, le crisi finanziarie e dei valori dell’ultimo ventennio hanno esacerbato una situazione sociale già critica. Nonostante la metà della ricchezza del mondo sia nelle mani dell’1% degli abitanti del pianeta, non assistiamo ad un conflitto fra questi ultimi e il restante 99%.

Come mai?

La società postmoderna, in special misura quella occidentale, è letteralmente spaccata a metà; e proprio per questo, inadeguata ad affrontare le sfide del presente, che invece richiederebbero unità, collaborazione e maturità. Assistiamo oggi – principalmente negli USA e in Europa – ad assetti sociali e politici incapaci di cogliere colori e sfumature; queste società in bianco e nero, sempre più spesso, si affrontano e si scontrano su tematiche più vicine ai problemi percepiti che alle soluzioni; questa condizione elegge leader più bravi a comunicare con le masse – attraverso la manipolazione di rabbia, insoddisfazione e paura –  che a governarle e guidarle.

Ed eccoci ad affrontare nel peggior modo possibile uno degli eventi più devastanti del secolo: la pandemia da Covid-19. Lo stiamo facendo divisi in innumerevoli dicotomie:

  • Salute VS economia;
  • Aperti VS chiusi (immigrazione, religione, sessualità);
  • Tolleranti VS intolleranti;
  • Creduloni VS complottisti;
  • Intellettuali e tecnocrati VS amici del “popolo”;
  • Complessità VS banalizzazione.

Insomma, l’elenco potrebbe proseguire ancora a lungo ma è davvero cambiato qualcosa? In fondo, la storia è ricca di divisioni sociali.

La domanda che, dal mio modesto punto di vista, questi due schieramenti dovrebbero porsi reciprocamente è:

per che cosa stiamo lottando?

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