Periferie: angoli silenziosi di donne inesistenti.

Periferie: angoli silenziosi di donne inesistenti.

Si chiama “Voci di donne delle periferie” ed è un interessante studio pubblicato dall’onlus “WeWorld”, condotto nelle periferie di alcune città italiane, dove è risaputo sia alta la percentuale delle famiglie che vivono disagio economico.

Grazie a questa ricerca, tante donne delle “periferie” hanno potuto avere voce, raccontando quali siano le loro esigenze, la loro vita, dando risalto alle loro potenzialità. Con l’attenta analisi della loro quotidianità, infatti, si è potuto comprendere quali risorse abbiano a disposizione e come poterle utilizzare per attivare qual cambiamento necessario per favorire la loro inclusione e delle loro famiglie e, quindi, rigenerare le periferie in cui vivono.

Trentasette donne intervistate, di età compresa tra i 16 ed i 61 anni, le quali vivono nelle periferie metropolitane di Milano (Milano Nord), Roma (San Basilio), Napoli (Scampia) e Palermo (Borgo Vecchio). La maggior parte sono italiane, hanno figli ed un titolo di studio medio-basso. Solo 1 donna su 3 ha un’occupazione e i motivi per i quali molte di esse decidono di non lavorare (o di lasciare il proprio lavoro) sono molteplici: per tante la nascita del primo figlio; per altre invece si tratta di esperienze di violenza domestica. Indubbiamente tutto questo incide pesantemente sulla vita lavorativa, anche a posteriori: chi deve riprendere fiducia in sé stessa o ha intrapreso percorsi di aiuto che prevedono l’inserimento lavorativo solo in una seconda occasione.

La loro quotidianità è caratterizzata da un elevato grado di isolamento sociale: dedizione completa alla famiglia ed allo spazio domestico, suddividendo il tempo tra accudimento dei figli, spesa alimentare e pulizia della casa, cura dei mariti. La loro vita sociale è molto limitata: la maggior parte, infatti, non ha molte amiche e non esce di casa, se non per spese o per attività dei figli. Le uniche relazioni intraprese sono con altre donne della cerchia familiare, mentre sono quasi del tutto assenti i rapporti con le altre mamme della scuola o vicine di casa, ecc…

E’ raro che queste donne si spostino dal quartiere in cui vivono.

Un elemento in comune è l’identificazione nel ruolo di mogli e madri, col conseguente completo annullamento di sé stesse.

Un aspetto rilevante è la presenza di un modello familiare tradizionale, con un rapporto di coppia basato sulla divisione di ruoli: la donna si occupa dell’andamento domestico e dei figli, mentre l’uomo lavora e porta i soldi a casa. Le intervistate non frequentano gli spazi pubblici dei quartieri dove vivono, né si spostano in altre zone della città. La scarsa propensione alla mobilità è data dall’isolamento sociale, dal fatto che non abbiano patente né un’auto a disposizione.

E’ abbastanza chiaro che la violenza sulle donne si basa su stereotipi radicati nella società che colpiscono gravemente l’identità e la dignità della stessa, oltre che su una cultura che non educa per niente alla parità di genere. Secondo il 19% degli intervistati, è normalefare battute e prese in giro a sfondo sessuale” e per il 17% è lecitofare avances fisiche esplicite”.

Come se tutto fosse normale!

Numeri che ci dovrebbero far riflettere. E che portano inevitabilmente a chiederci se una tale condizione sia solo di donne che vivono una certa situazione socio-economica. La risposta è NO! Siamo tutte vittime della stessa cultura, solo che mentre molte hanno gli strumenti per potersi difendere, altre, invece, non riescono a farlo, credendo che quello che vivono sia semplicemente “normale”. E lo studio condotto da “WeWorld” doveva servire anche a questo, a capire cioè cosa si ha, per poterlo sfruttare al meglio ed uscire dalla situazione di disagio.

La nostra società non aiuta molto a questo cambiamento. E’ noto a tutti come la stessa sia basata su un modello familiare alquanto patriarcale e su una cattiva identificazione economica della donna, che la porta ad essere considerata ad un livello inferiore, in ogni ambito della sua vita. Il superamento di questo prototipo di società è abbastanza lontano, ma dovrebbe portarci ad una maggiore consapevolezza della condizione odierna della donna e, quindi, all’isolamento sociale di chi usa la violenza.

E le istituzioni in tutto ciò? Che ruolo hanno?

Sicuramente uno dei più importanti. E’ ormai agli onori della cronaca come, ancora, una donna vittima di violenza non si senta tutelata e protetta, come sia difficile essere compresa, sotenuta, difesa. Ed in caso di disagio economico, in aree “dimenticate”, la situazione peggiora.

La scuola è fondamentale. Dovrebbe partire tutto da lì. Dall’asilo, ai bambini dovrebbe essere insegnato il rispetto verso il prossimo. Medie e superiori sono, poi, le fasi più “delicate”, dove un’ottima educazione sessuale aiuterebbe a non creare danni irreversibili, magari con un valido supporto psicologico.

E la famiglia? La nota dolente di tutto. Ci sono famiglie dove l’attenzione verso questi temi è alto, ma in altre, troppe, l’egemonia maschile sulla donna è ancora molto forte.

Basterebbe che queste due istituzioni, insieme alle forze dell’ordine, si parlassero, agissero insieme per “creare” futuri adulti emancipati.

Ma nel frattempo di cosa abbiamo bisogno?

Di certezze, prima di ogni altra cosa.

Tutte le donne dovrebbero conoscere cosa fare, grazie alle iniziative delle istituzioni. Non è possibile che ancora oggi ci siano donne, come quelle della “periferia” appunto, che non abbiano un lavoro, non possano instaurare relazioni e debbano annullarsi completamente. Ogni donna ha la sua storia e deve essere lei stessa artefice del cambiamento della sua condizione. Le istituzioni devono essere in grado di analizzare gli strumenti che si hanno ed aiutare in base agli stessi.

Fin quando, però, troppi si tapperanno gli occhi e non affronteranno il problema, la situazione sarà sempre così difficile. Una presa di coscienza aiuterebbe tutti, istituzioni, società, donne, uomini, a cambiare rotta. Quando accadrà, non si parlerà più di prevenzione, di tutela, di certezze, ma solo di brutti ricordi.

Autore

 

Rispondi