IL PESO LEGGERO DELLE PAROLE LONTANE | SHARING LAB APS/ASD
Marcello Martena publicato in: Novembre 18, 2025 culturasocietàblog

Ci sono dolori che sappiamo affrontare solo in un modo: stando accanto.
Seduti vicino, in silenzio.
Offrendo una presenza che parla da sola, che non chiede traduzioni, che non deve spiegare nulla.

Ma cosa resta quando non puoi esserci?
Quando la persona che soffre è importante per te, ma fisicamente distante, e l’unico ponte possibile sono le parole?

Resta un vuoto che i messaggi non colmano.
Resta la sensazione che ogni frase sia troppo piccola, troppo astratta.
Perché, da lontano, persino un «ti sono vicino» può sembrare fragile, quasi retorico, e tu sai che non vuoi regalare frasi fatte a chi ami.

È qui che nasce quella goffaggine discreta che conosci bene:
una cautela che asciuga la voce, una scelta attenta dei toni, un tentativo sincero di non aggiungere peso dove già ce n’è troppo.
È un’inquietudine che non vuole apparire invadente né rituale, che rifiuta i gesti di circostanza e cerca invece una forma di vicinanza che sia autentica, anche se povera di mezzi.

La distanza trasforma il dolore di chi amiamo in qualcosa che si può solo sfiorare.
Non lo puoi reggere con le mani.
Non lo puoi sostenere con il corpo.
Ti restano solo parole: leggere, imperfette, a volte quasi inutili.

Eppure, proprio lì, in quell’impotenza, nasce un’altra forma di cura: la vicinanza sincera, anche se povera di mezzi.
Un messaggio breve, uno spazio lasciato per non invadere, un «non devi rispondere» che protegge, un «ci sono» che non pretende nulla.
Non sono sostituti della presenza: sono tracce di presenza, piccole ma vere.

Lontano, non puoi essere un abbraccio.
Ma puoi essere un filo.
Un filo sottile, che non risolve il dolore, ma che ricorda a chi soffre che non sta camminando del tutto da solo.

E a volte — soprattutto quando non possiamo esserci — questa è la forma più onesta, più rispettosa e più umana di amore.