DESTRA ROSARI E DIVISE MILITARI. SINISTRA GOURMET E TERRAZZE PANORAMICHE | SHARING LAB APS/ASD
Marcello Martena publicato in: Giugno 08, 2025 culturapoliticasocietàblogdiritti civili

Copione di una democrazia posticcia.

Non servono Shakespeare o Pirandello per raccontare il teatrino della politica italiana: basta un busto di Mussolini in salotto, un generale in felpa verde che scrive best-seller identitari, e due riformisti da talk show che si contendono il centro mentre lo svuotano.
Nel mezzo, un ragazzo che osa dire no. E una generazione che forse – forse – non ci sta più a lucidare anfibi.

Atto I: il centro che guarda a destra, ma con timidezza

Italia Viva e Azione, quei partiti che professano la terza via come una religione civile ma praticano il posizionamento tattico come fosse yoga elettorale, continuano a orbitare nel sistema solare del centrosinistra, pur con gravità da centrodestra. Sfidano Meloni solo nei salotti, votano spesso con lei in Parlamento e intanto raccontano di voler salvare l’Europa dalla sua versione latina: urlata, nostalgica, patriarcale e – per non farsi mancare niente – vagamente spolverata di busti del Ventennio.

Figli nominali del riformismo progressista, agiscono in realtà come nipoti tardivi di un liberalismo tecnocratico, stanco e senza eredi diretti. Si dicono di sinistra come ci si dice spirituali senza credere in nulla: un’etichetta di comodo, pronta a essere smarcata al primo segnale di “serietà”. Il loro centrosinistra non va riformato, ma salvato — non dalla destra, ma da sé stesso: meno conflitto sociale, più efficienza aziendale; meno diritti, più algoritmi. È il PD versione cloud, con meno popolo e più prestazioni. Il Jobs Act come vangelo, l’agenda Draghi come decalogo, e il consenso ridotto a retargeting emotivo.

Renzi ha fatto della sinistra “non ideologica” la sua bandiera, che è come dire di voler un’auto ecologica con motore a diesel: una contraddizione ben lucidata. Calenda, invece, preferisce le interviste ai comizi, e i post indignati ai programmi politici. Entrambi combattono “la sinistra che perde” con la stessa perentorietà con cui evitano di vincere qualcosa. Così facendo, trascinano il baricentro politico verso destra, svuotando il campo progressista e lasciandolo in balia di nostalgie resistenziali o sogni ecologisti fuori mercato.

Non si dichiarano di centrodestra, ma ne ereditano gli umori, le priorità, persino il lessico: si parla di “merito”, “decoro”, “produttività” con la stessa enfasi con cui la sinistra parlava un tempo di “diritti” e “giustizia sociale”. Il risultato è un'identità che non osa definirsi, ma sa bene cosa non vuole essere. Peccato che, per molti elettori, non sapere chi sei conta più di chi attacchi. E così, il centro si trasforma in un eterno bivio, dove si rischia di stare fermi per non sbagliare strada.

Atto II: Vannacci e il codice d’onore dell’uranio impoverito

Nel frattempo, nel regno della destra reale (o, meglio, della destra-destra) – non quella che si sogna con Macron, ma quella che si gode con TikTok e busti bronzei – c’è il generale Vannacci, autore del pamphlet "Il mondo al contrario", celebrato da Salvini come patriota, detestato da metà dell’esercito come imbarazzo editoriale. Le sue frasi contro donne, gay, migranti e disabili non scandalizzano i suoi fan: scandalizzano chi, ingenuamente, pensa che la destra italiana possa ancora essere una cosa seria.

Atto III: Simone Leoni, l’eretico azzurro

E qui irrompe sulla scena Simone Leoni, 25 anni, leader dei giovani di Forza Italia. Al congresso del movimento giovanile, davanti ad Antonio Tajani, osa dire ciò che la destra istituzionale non ha mai avuto il coraggio di urlare:

«Vannacci è aberrante. Ha scelto la codardia e la discordia per mero calcolo politico».

Silenzio. Poi i giovani della Lega lo attaccano, Tajani prende appunti (forse), e il padre del ragazzo, Silvio Leoni – ex inviato di guerra – sguaina la penna e lo rinnega via giornale, in una lettera al Tempo che è un capolavoro di machismo retrodatato:

«Tu non sei degno di spolverare gli anfibi del generale Vannacci».

Ma la vera stoccata è più profonda: Silvio lo accusa di essere come chi “tradì Berlusconi”. Che, in questa liturgia, è come bestemmiare in chiesa mentre rubi le ostie.

Atto IV: risposta di un figlio moderno a un padre d’altri tempi

Simone non tace. Risponde pubblicamente, e lo fa come un giovane Cicerone con profilo Instagram:

«Non ho condiviso nulla dei miei 24 anni con mio padre. Ma ho imparato il rispetto e la dignità da chi mi ha voluto bene. E vado avanti, da uomo libero».

Altro che Vannacci. Qui c’è più romanzo familiare che campagna elettorale. Ma ciò che colpisce è la solitudine politica di questo ragazzo, che ha avuto il coraggio di dire ciò che troppi tacciono: che l’estrema destra è diventata il volto pubblico della coalizione di governo, mentre i moderati tacciono o si voltano altrove, o — come Renzi e Calenda — infestano la sinistra, svuotandola dall’interno con l’aria di chi sta facendo pulizia.

Atto V: La destra che vorremmo, la destra che abbiamo

L’intervento di Simone Leoni non è solo una polemica privata: è il grido sommesso ma limpido di una generazione che non vuole più piegarsi all’autoritarismo folkloristico di Vannacci, ai busti di Mussolini di La Russa, alle espressioni di finta fierezza sovranista che sanno più di spavalderia da bar che di statura istituzionale.

In un’Italia dove il “centro” si traveste da sinistra e flirta con la destra, dove la “destra” si comporta da meme revisionista e la sinistra balbetta sotto il peso delle sue scissioni, ci voleva un venticinquenne liberale per dire che “no, questa non è la mia destra”.

Fuori copione

Se oggi serve coraggio per criticare un generale che inneggia all’identità ariana delle famiglie nucleari, se serve forza per resistere a un padre che ti accusa di codardia in prima pagina, allora forse è vero: la nuova politica nascerà da chi ha il coraggio di disobbedire a chi porta gli anfibi, ma non cammina più da tempo.

E chissà – magari da quel gesto, apparentemente piccolo ma eticamente smisurato, nascerà anche una destra liberale, moderna, colta, che non si vergogni di difendere i diritti umani mentre si batte per la sicurezza, la libertà e l’orgoglio nazionale. Una destra che si tolga finalmente di dosso le nostalgie tossiche e i riflessi autoritari, e impari a camminare senza bisogno di stivaloni lucidi e inni retrò.

Ma sarebbe miope pensare che il problema stia tutto a destra. Le destre estreme, che crescono ovunque come erbacce sui marciapiedi delle democrazie incerte, sono spesso figlie legittime di sinistre smarrite.

Se il gesto di Simone Leoni segna l’apparizione rara di una destra liberale, dialogante e finalmente non allergica ai diritti civili, la sua forza simbolica non è tanto nell’eccezione che rappresenta, quanto nel vuoto che rivela: quello della sinistra. Una sinistra che ha smarrito il proprio lessico e i propri luoghi, che non abita più il disagio ma lo commenta da studio ormai da decenni, che ha sacrificato l’equità sociale sull’altare della tenuta dei conti e della realpolitik. Che è rapidissima a mobilitarsi per i diritti civili – e fa bene – ma muta sulle disuguaglianze strutturali, sulle politiche industriali, sull’ambiente, sulla sanità, sulla scuola e sul lavoro. Che usa il pragmatismo per spiegare ogni rinvio, salvo poi sospenderlo quando si tratta di fonti fossili, armi, guerre o appoggi incondizionati a governi che violano sistematicamente i diritti umani, come quello di Netaniahu, l’ultimo specchio: lunghi silenzi prima ancora che mezze parole, e solo molto dopo le bombe e migliaia di vittime civili, le lacrime, le piazze.

Ma se non si è più in grado di parlare agli ultimi, non resta che ammettere che gli ultimi non sono più "il tuo popolo". E allora non si è più sinistra: si è una buona destra moderata, il che non è un peccato mortale, ma almeno va dichiarato. Il paradosso è che proprio quel giovane forzista, nel condannare l’omofobia e il militarismo tossico del generale Vannacci, ha ricordato a tutti che certi diritti non sono né di destra né di sinistra, ma della civiltà.

Se la sinistra vuole tornare a esistere, dovrà tenere a mente che la politica si fa nei territori, tra chi quel territorio lo vive come ultimo.